lunedì 1 gennaio 2001

Di storie e storielle ce ne raccontano ogni giorno. Ora vogliamo sentire una storia vera

“Disonesto è far credere che tutto questo si possa cambiare con le parole”. E i detenuti di San Vittore hanno visto l’esclusivo fotoreportage dell’inviato

Per dieci minuti poco più erano lì con lui. Fuori dalle mura del castigo e immerse nel deserto del Sahara. Alla scoperta di un mondo maledettamente infinito forse ancora più insidioso del mondo inesorabilmente sbarrato in cui risiedono loro, i detenuti del carcere milanese di San Vittore, terzo raggio e sezione femminile. Chi da tanti anni, chi da qualche settimana. Ma non c’è differenza. Ora la vita è questa. Al di qua di un cancello chiuso, senza chiave. In attesa che i ricordi della vita oltre quel cancello si facciano più intensi. Perché si vive anche di ricordi. Figuriamoci in carcere. E nelle immagini dell’esclusivo dvd che Fabrizio Gatti ha preparato in occasione della Giornata delle Memorie (il 28 gennaio scorso), alcuni o chissà parecchi dei reclusi avranno rivisto i lati crudeli della propria esistenza, cinicamente incastonata fra la clandestinità e lo sfruttamento. Una decina di minuti, solo una decina. Quel che basta per portarli tutti con sé laggiù, dove la persona (persona? che parola è? cosa vuol dire?) è merce di scambio, nemmeno pregiata.

Guardando questo fotoreportage e, se potete concedervi ben più di dieci minuti, leggendo Bilal - Il mio viaggio da infiltrato nel mercato dei nuovi schiavi, il libro-cronaca di Fabrizio Gatti (inviato de L’Espresso), vi accorgerete che fuori dalle mura di una casa circondariale c’è di peggio, di molto peggio. Molto peggio nell’Africa nera. Molto peggio nei ghetti provvisori di Lampedusa, quelli che vengono chiamati “centri di permanenza temporanea”, quelli in cui preferiresti essere spedito in un girone qualunque dell’inferno dantesco, tanto è uguale se non meglio: dormire (parola grossa) su un materassino più di insetti che di gommapiuma e appoggiare la testa su un sacchetto dell’immondizia che dovrebbe fungere da cuscino, mettere a tacere i rumori dello stomaco con un piatto di plastica dove scivolano quattro maccheroni (crudi) in croce e pezzettini ini-ini di tonno come guarnizione di un pasto fin troppo generoso, dissetarsi con una bottiglia d’acqua (se non è qualcos’altro) di due litri scarsi da dividere con il malcapitato di turno. E voi avete il coraggio di chiamarli centri di permanenza questi nuovi campi di concentramento? Fabrizio Gatti si è fatto arrestare tre volte: solo all’ultimo tentativo è riuscito a farsi scaraventare sull’isola dei famosi clandestini.

Altro che copiare, incollare e orpellare dispacci di agenzia per farci su la notiziona. Alzate le chiappe e venite qui a Lampedusa, se avete il coraggio. Venite qui a vedere, a vivere. Mettendoci mica solo la faccia. E scoprirete che il traguardo di molti africani non è la Sorbona di Parigi o più semplicemente un posticino di lavoro in un cantiere italiano. No, non è il sogno europeo. E’ l’inizio di un incubo. La fine, se ci arrivi, di un’odissea dove le sirene lasciano il posto a poliziotti e doganieri corrotti, a scafisti avidi e senza scrupoli. Se ci arrivi, dicevamo. Sennò, durante la traversata-horror, il mare adirato ti inghiottisce e vai a corroborare il dodici percento di quegli intrepidi viaggiatori che tra le coste libiche e quelle italiane trovano la morte: “Approdare vivi a Lampedusa – scrive Gatti - è come sopravvivere a un incidente aereo”.

Tre schede telefoniche (non si sa mai), spiccioli di euro avanzati e il borsellino con dentro i dollari, il tubetto di colla per nascondere le impronte digitali, la zaino nero, il giubbotto salvagente, la camicia, il pile, le vecchie ciabatte, la bottiglia d’acqua da un litro e mezzo, sei panini, tre scatolette di sardine. Si parte. Gatti, con in tasca un documento falso, non si taglia barba e baffi per mesi e mesi. E l’unico modo per assumere le sembianze fisiche e i connotati biografici di un fasullo Bilal Ibrahim el Habib, nato nel ’70 in un villaggio del Kurdistan iracheno. Fabrizio alias Bilal se la fa da Dakar a Tripoli. Sei lunghissimi mesi, migliaia e migliaia di chilometri. Solcando il Tenerè e il Sahara, passando per Senegal, Mali, Burkina Faso, Niger, Libia, Tunisia. Come? In tanti modi. A piedi, innanzitutto. Poi, quando capita, a bordo di automobili dalla marmitta ribelle, camion sgangherati che giocano a fare gli equilibristi, trenini che con i binari non vanno molto d’accordo e spesso deragliano trasformando i passeggeri nelle loro vittime preferite.

Bilal supera indenne le frontiere, s’infiltra nelle organizzazioni criminali africane, cammina imperterrito nel sentiero della speranza, si mimetizza nella tratta dei nuovi schiavi. Giovani imbottiti di illusioni, che si lasciano fregare così sotto il naso, che si lasciano calpestare come formiche alla ricerca della tana. Giovani a cui viene promessa la ricca Europa, quando invece a loro non rimane che la povera Africa. Milioni di immigrati accecati dal bagliore di una vita migliore e messi in vendita ad un famigerato mercato di carni umane. E i governi si spartiscono le mazzette: è questa la tratta degli schiavi del terzo millennio. “La più grande menzogna è far credere che tutto questo si possa cambiare con le parole”. Basta con le bugie, allora. Basta con le storielle a lieto fine. Questa di Fabrizio Gatti è una storia vera. Leggere, vedere per credere. Gli inquilini di San Vittore hanno visto il suo fotoreportage. E adesso ci credono. Ancora più di prima.

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