lunedì 22 gennaio 2001

Dal teatro alla tv, sempre grandi risate

Claudio Bisio nasce a Novi Ligure (in provincia di Alessandria) il 19 marzo 1957. Debutta in palcoscenico nell’81 con la compagnia Teatro dell'Elfo a Milano. Grande successo riscuote l’adattamento per le scene di Monsieur Malaussene di Daniel Pennac, con il quale Bisio partecipa al Festival dei Due mondi di Spoleto nel ‘97. Nel ‘91 pubblica un 45 giri, Rapput, che scala rapidamente le classifiche di vendita. Nel ‘93 esce il suo primo libro Quella vacca di nonna papera. Molti i riconoscimenti anche al cinema: I Picari di Mario Monicelli, Scemo di guerra di Dino Risi, Strana la vita e I cammelli di Giuseppe Bertolucci, fino al riuscitissimo sodalizio stretto con Gabriele Salvatores. Insieme girano: Kamikazen ultima notte a Milano, Turné, Mediterraneo (Oscar come miglior film straniero nel ‘92), Sud, Puerto Escondido e Nirvana. Nel 1996 Bisio è diretto da Francesco Rosi ne La tregua, tratto da libro omonimo di Primo Levi (tra gli attori anche John Turturro, Stefano Dionisi e Massimo Ghini). Sul piccolo schermo Claudio Bisio partecipa a diverse trasmissioni comiche di successo: Cielito lindo, Facciamo cabaret, Mai dire gol, Francamente me ne infischio, Zelig. Tra i telefilm: Oscar per due diretto da Francesco Farina e Un giorno fortunato di Mario Martelli. Nel 2003 il conduttore torna assieme a Michelle Hunziker prima con Zelig Circus e poi con Zelig Off.

Testimoni e testimonial: Claudio Bisio

Il comico di Zelig da anni s’impegna nel campo della solidarietà.
E ci riesce con successo nonostante il lavoro non dia tregua:“basta un po’ di inventiva”
Il sociale è anche fantasia
“Cos’è la discriminazione? E’ il non rendersi conto che siamo tutti uguali”


Dici Zelig, pensi a Claudio Bisio. Dici Claudio Bisio, pensi alle sue gag, risate annesse. Teatro, tv, cinema. Attore, cabarettista, presentatore, doppiatore, cantante. Insomma, Claudio Bisio da Novi Ligure (ma milanese d’adozione) è il comico italiano più eclettico in circolazione. La sua pelata luccicante e la sua sana ironia dispensano buon umore dal lontano 1978 quando, senza grosse aspettative, tenta l'esame di ammissione alla scuola civica del Piccolo teatro di Milano. Il giovane Claudio porta un brano tratto da Look back in anger di Osborne e canta al pianoforte Vedrai vedrai di Luigi Tenco. Che succede? Che la commissione viene stregata dalla sua esuberanza. Ammesso. Roba da non crederci, ripete lui ancora oggi. Ci credono e ci hanno sempre creduto eccome i suoi insegnanti. Gente come Franca Nuti, Gianfranco Mauri, Mina Mezzadri, Massimo Castri, Virginio Mazzolo. Gente che se ne intende di talenti in erba. Durante il triennio della scuola Claudio studia Brecht, Pirandello, Feydeau, Shakespeare, Dostojevski. Li studia e diventa Claudio Bisio. Dalla comune del teatro allo schermo piccolo e grande della televisione e delle sale cinematografiche. Il Claudio di Zelig che sketcha con Vanessa Incontrada lo conosciamo tutti. Claudio è questo. Ma non solo. Perché a lui i bambini, non solamente i suoi due figli, piacciono tanto. Troppo da non poter far nulla per loro. Tra le numerosissime iniziative di solidarietà, Claudio Bisio da cinque anni collabora con il CESVI, organizzazione umanitaria che opera in trenta paesi del Terzo Mondo per il sostegno dell'infanzia. Claudio Bisio è anche questo. O soprattutto questo.
Claudio, perché occuparsi del sociale?
Non occuparsi del sociale credo sia impossibile! Noi siamo esseri sociali. Viviamo in una società, siamo immersi nel sociale, ne facciamo parte. Quindi, non occuparsene è paradossale. Vero è che non ho mai fatto un lavoro specifico e, nelle varie fasi di vita, il mio occuparmi del sociale ha assunto modalità diverse. Nei miei anni giovanili (gli anni ’70), ad esempio, il mio intervento nel sociale ha avuto come terreno privilegiato la scuola, ma anche la politica. E’ buffo pensare che a quasi quarant’anni di distanza, mi sono ritrovato ad occuparmi dei problemi della scuola, ma quella dei miei figli…”
Quali risultati hai conseguito con le associazioni di solidarietà a cui hai aderito?
In alcuni casi il riscontro è stato immediato. Ad esempio, ricordo una serata che avevo fatto per l’acquisto di un paio di incubatrici speciali per il reparto di pediatria neo-natale di Varese… Nel giro di poco sono state acquistate. In altri casi, invece, il risultato è più a lungo termine. Ma voglio sempre verificare.
Cosa intendi per “discriminazione”?
Non rendersi conto che siamo davvero tutti uguali e aggrapparsi a dei privilegi che il caso ha voluto donarci.”

Possono i personaggi celebri di qualunque settore fare da traino per incentivare il pubblico ad impegnarsi nella solidarietà?
Credo che i personaggi, in realtà, non servano a “fare da traino”. Il mio volto o la mia adesione può semplicemente contribuire a far sì che un progetto o un’iniziativa riesca ad avere più “appeal” per i media e quindi riuscire a dare risonanza all’iniziativa.”

Lavoro e, nel tempo libero, volontariato: si può, anche ad alti livelli professionali?
Non è facile, ma credo di sì. Basta avere un po’ di fantasia…”
Claudio Bisio da anni spreme la sua fantasia e pur di fare sociale se le inventa tutte.


(articolo pubblicato su Teatri delle Diversità - aprile 08)

domenica 21 gennaio 2001

La sua famiglia, dolce melodia

Juan Estebán Aristizábal Vásquez, in arte Juanes, è nato a Medellín (Colombia) il agosto 1972. Inizia la sua carriera artistica a 15 anni nella sua città natale quando crea gli Ekhimosis, un gruppo metal che rimarrà unito per 12 anni con 5 album in carriera. Debutta da solista nel 1999 con la canzone Fíjate bien che gli frutta tre Latin Grammys: Migliore Artista Novità, Miglior Album Vocale da Solista e Miglior Canzone Rock. In Europa diventa famoso con La Camisa Negra, dall’album Mi sangre. Nei Latin Grammys del 2005 Juanes vince altri tre premi: Migliore Canzone Rock per Nada valgo sin tu amor, Miglior Album Rock da Solista per Mi sangre e Miglior Video Musicale per Volverte a ver. Nei suoi testi mescola i suoi timori, le sue aspirazioni, la sua sensibilità sociale, con l'amore intenso per la sua famiglia. Il tutto sopra le note della sua inseparabile chitarra elettrica.

La solidiarietà non ha colore

Il cantante colombiano, autore della contestata La camisa negra, s’impegna nella lotta contro le mine antiuomo e si dedica ai bambini del suo Paese con Inter Campus
Juanes si sbottona la camisa e dà ritmo al sociale

Adora lo sport, in particolare il calcio “che in certi eventi unisce la gente”


Mannaggia a quel titolo un po’ così. A quella “camicia nera” che gli ha procurato la fama di fascistone. Vabbè, diciamocela tutta: con la malizia politica che c’è in giro, se le è proprio andata a cercare. Ma va sempre in questa maniera quando hai la coscienza a posto e sei incosciente a ciò che vai incontro. Juan Estebán Aristizábal Vásquez, per farla breve Juanes, ha incontrato il successo due anni fa a Lipsia durante la cerimonia dei Mondiali tedeschi di calcio, accompagnando a colpi di mandolino la sua hit La camisa negra. Abbiamo capito bene, “camisa negra”? Sì, avete capito benissimo. Tradotto, camicia nera. Anche se non serve una laurea in lingue per capirlo. E nemmeno quella in storia per avere certi sospetti. Infatti, puntualmente, piovono critiche. Già esultavano alcuni nostalgici, illusi di aver finalmente trovato un’ode al regime riadattata ai giorni nostri. Gioia che dura poco. Perché Juanes, appena decollata la polemica, decide di precisare che lui è tutto tranne che fascista e che la camicia nera è simbolo di lutto, del dolore che si prova quando finisce una storia d’amore.

Credetegli. E credetegli pure quando vi rivela che è un interista doc, come il suo grande amico Ivan Ramiro Cordoba, difensore della squadra milanese. Colombiano Juanes, colombiano Ivan. E vedi come la camiseta cambia colore, anzi ne aggiunge uno e diventa negrazzurra. Senza farlo apposta, Juanes ha sposato la causa degli Inter Campus in Colombia, che combattono la povertà e l’emarginazione: “Sono stato coinvolto quattro mesi fa, appena concluderò il mio tour negli Usa svilupperemo altro lavoro. In Colombia il calcio è molto seguito, come la musica: due mondi che, uniti, possono aiutare tanta gente”. Quando si dice che il calcio sudamericano è musica. Attenzione però. Nel sociale Juanes si è dato da fare ancor prima di scoprire gli Inter Campus: nel 2006 ha creato la fondazione Mi Sangre, “che s’impegna nella lotta contro le mine antiuomo, che da noi in Colombia sono un problema molto grave. Avevo scritto una canzone sulle vittime delle mine e da lì mi invitarono a tenere concerti e incontri. Ho studiato e capito la portata della tragedia. Così mi sono impegnato con Mi Sangre che aiuta le vittime per la riabilitazione da un punto di vista educativo”.
Musica, calcio e impegno sociale. Del resto molte sue canzoni parlano “di affetti, di relazioni tra le persone e di questioni sociali che da noi sono molto sentite, soprattutto il problema dell’infanzia”. A proposito, dicono che vorresti dedicare il tuo prossimo disco ad un bambino: “Sì, ha 12 anni, si chiama John Ferney e vive a Sonson, vicino a Medellin. E’un giocatore fantastico e mi fa impazzire perché ha perso una gamba, ha attraversato la riabilitazione e ora gioca benissimo con la protesi. Lui è il perfetto esempio di cosa può fare lo sport per le persone e di quanti insegni a non mollare. Quando gli parlo è sempre felice e positivo”.

Juanes, che lo scorso marzo ha presentato a Milano il suo nuovo album La vida es un ratico ospitando Cordoba e altri giocatori dell’Inter, ci racconta che con lo sport ha sempre avuto un bel rapporto: “A scuola giocavo a calcio e a basket e ora amo correre. Mi piace quando lo sport unisce la gente, in certi grandi eventi è come se tutto il mondo si ritrovasse in un luogo, ricorda certe rappresentazioni religiose. Non mi piace se ci sono troppe polemiche e quando potere e soldi hanno il sopravvento. Succede spesso”. E lo dici a noi, formati al corso di calciopoli? Prima la classica, poi la metal: di chitarre Juanes ne ha cambiate parecchie. Ma il suo amore per la musica è rimasto lo stesso. Come quello per il sociale. Colore della camicia permettendo.

sabato 20 gennaio 2001

Fenomeno senza età

L’ex campione italiano di pallavolo ci parla del suo impegno per i bambini
Andrea Lucchetta, solidarietà oltre la rete

“Io testimone, non testimonial. E bisogna diffidare da chi usa il tuo nome”


Fa parte della generazione dei fenomeni. Quella dei Zorzi, dei Gardini, dei Cantagalli, dei Tofoli, dei Pasinato, degli eccetera eccetera. E non se la prenda chi non è stato menzionato, perché una pagina soltanto non basterebbe per raccontare le gesta di tutti i campionissimi classe ’60 della pallavolo italiana. Ecco, Andrea Lucchetta, Treviso 1962, è stato uno di questi fenomeni. E a lui dedichiamo le colonne seguenti. Non gli chiediamo come faccia ogni mattina a sistemare la sua chioma in diagonale con cotanta precisione geometrica, perché con pettine e gel è ancora un fenomeno. Non gli chiediamo nemmeno come sia arredato il suo salotto, perché con tutti quei trofei vinti in carriera intuiamo che non ci sia più spazio nemmeno per i mobili. Gli chiediamo invece se gli piace il sociale. Domanda scontata: Andrea ha a che fare con la solidarietà praticamente da sempre e gli piace da matti. C’è poco da scherzare in questo campo. Dove la rete non è quella che divide in due il rettangolo di gioco, ma quella che divide e basta. In parole povere, vogliamo sapere la sua sul concetto di discriminazione “che prende il sopravvento – spiega Andrea - quando vedi che dalla parte opposta c’è la volontà di mantenere il distacco. Un sentimento negativo che ha dimensioni storiche: il Cristianesimo, per esempio, sta pagando anni e anni di crociate, stiamo tornado indietro, verso una discriminazione al contrario”. Ragazzi, quel gran burlone di Lucchetta non ha proprio voglia di scherzare se si parla di emarginazione. Un disagio sociale che riguarda anche i bambini. Per Crazy Lucky, le creature più belle del mondo. Il suo hobby mattutino? Accompagnare i due figlioletti a scuola. Loro sì che sono fortunati. Ma tanti altri figli, accompagnati o no, a scuola nemmeno ci vanno. Il primo pensiero va quindi ai piccoli. Non solo un pensiero, ma un aiuto concreto: “Da più di quindici anni mi occupo dei problemi dell’infanzia. Visito diversi orfanotrofi ed è bello dimostrare a questi bambini che esisti, che sei vero, che sei uno di loro. Li fai giocare, li fai sorridere: basta poco per aprire il tuo e il loro cuore. Inoltre sostengo adozioni a distanza. E ultimamente sto dando assistenza ad un medico che cura alcuni bambini provenienti dal continente asiatico”.
Andrea, perché il sociale?
Il mio modo di essere vicino al sociale sta in due tipi di aspetti: quello pubblico, ovvero la condivisione di messaggi, e quello personale, che però ci tengo a non dirlo a nessuno.”
A Teatri delle diversità puoi confessarlo…
Mi dispiace, è una cosa molto personale. Ti posso solo dire che a mio avviso non basta metterci la faccia per fare solidarietà.”
Ci hai alzato la palla per una bella schiacciata: intendi dire che bisogna essere più testimoni che testimonial?
Essere testimonial, far sì che altri utilizzino la mia immagine, non m’interessa. Testimone è qualcosa che devi capire e sposare fino in fondo, che deve essere in linea con la tua persona. Io mi sento testimone perché m’identifico in ogni progetto a cui scelgo di partecipare.”
Però ci sono molte associazioni che puntano solo a farsi pubblicità sfruttando i vostri nomi.
Già, se ne sentono di tutti i colori. Bisogna stare davvero attenti e andare a vedere dove va a finire tutto il malloppo. Io condivido solo iniziative totalmente trasparenti dal punto di vista del bilancio, come Amnesty International. C’è da dire che avendo smesso di giocare ho molto più tempo per dedicarmi al sociale. Ma riesco a coinvolgere molti atleti in attività.”
Tra fenomeni di solidarietà ci s’intende.

Insaziabile

Andrea Lucchetta, ex centrale del volley italiano, è nato a Treviso il 25 novembre 1962. La sua carriera inizia in seconda divisione nell’Astori Mogliano Veneto, per poi salire in A2 al Treviso. L'anno seguente approda nella massima serie con la Panini Modena dove gioca 9 stagioni fino al 1990, quando passa alla Mediolanum Milano. Qui vince tutto: un Mondiale per club, 3 Coppe CEV, 4 Scudetti, una Coppa delle coppe e 3 Coppe Italia. Nel 1994 va all'Alpitour Cuneo e fa poker: Coppa CEV, Supercoppa Italiana, Supercoppa Europea e Coppa Italia A1. Dopo vari ripensamenti, chiude la sua carriera a Modena nel 1999. Con la Nazionale italiana (292 presenze) conquista un Mondiale nel 1990 e 3 World League consecutive (1990, 1991 e 1992). Viene soprannominato Crazy Lucky per la sua particolarissima capigliatura a spazzola e in diagonale.

venerdì 19 gennaio 2001

Dalla terra di nessuno alla terra di tutti

Al centro Follini sarebbe stato protagonista. Ora nel Pd è uno dei tanti

Sarà che gli piace rischiare perché “questa è l’unica emozione che noi politici possiamo trasmettere
[1], di certo quando il 13 febbraio 2007 votò per il governo, il rischio di trovarsi sotto casa due pretoriani dell’opposizione ad attenderlo a braccia incrociate più i militanti de L’Italia di mezzo a tirargli i pomodori, Marco Follini ha sfiorato di correrlo seriamente. Ma senza troppa ironia, non gli sarà stato per nulla semplice motivare il suo cambio di metà campo considerate le promesse, nemmeno così remote, di una politica liberata da “questi due blocchi costruiti a destra e a sinistra entrambi tributari di posizioni sempre più eccentriche[2]. Come la mettiamo?

Nobile sì è stato il suo tentativo di “togliere il filo spinato che separa le due Italie
[3]. Nobile sì il suo desiderio di moderare toni e colori “in un mosaico impazzito di tessere che individuano nell'avversario un demonio da mettere al bando della civiltà[4]. La logica del muro contro muro, la politica dei veleni, non si addice ad uno come Follini, cresciuto alla scuola di Fanfani e di Moro. Però, bisogna ammetterlo, una volta svincolatosi da Berlusconi ci si aspettava che in quel minuscolo orticello ci rimanesse a vita, a maggior ragione perché lo aveva coltivato praticamente da solo, con sudore e fatica. E invece. Invece l’amor sui è andato a farsi benedire: Marco ha tradito non solo i suoi elettori, ma anche se stesso. Perché anziché custodire gelosamente la propria creatura, l’ha venduta al miglior offerente: in un periodo di vacche magre, Prodi si è ritrovato in tavola un agnello appetitoso.

Che voglia spostare il baricentro del Pd verso il centro gli crediamo. Che ci sia molto più centro a sinistra che a destra non ne siamo sicuri. Il dubbio sorge quando vedi Casini uscire dalla Cdl e la coppia Tabacci-Baccini inventarsi la seppur modesta Rosa bianca. Perciò viene da chiedersi: non era meglio attendere ancora qualche mese per poi fare la grande rimpatriata con tutti i compagni centristi nella terra di mezzo, o terra di nessuno? Sì, forse il timore di Follini era proprio di diventare all’improvviso signor-nessuno in quel solco della politica insabbiato dallo schema bipolare che nacque alla morte della Prima Repubblica e che da allora vive nel cuore degli italiani più forte che mai. Ma ora nel Pd Follini, se non è nessuno, è certamente uno dei tanti.

Davanti a lui ci stanno (tanto per fare qualche nome random) le “giovani leve” Letta e Franceschini. Gli ever-green D’Alema, Rutelli, Amato. E poi la Finocchiaro, la Bindi, la Binetti. Da poco (la teodem si tenga forte) pure la Bonino. Eccetera, eccetera. Gli ex Ds e gli ex Dl sono tanti. Milioni di milioni no, ma sono tanti. E la stella di Follini rischia di essere oscurata. Laggiù invece, in quel centro strano ma può darsi anche vero, Marco Follini avrebbe avuto un peso notevole, sarebbe stato (gioco di parole non voluto) al centro della scena. Senza dover fare i conti con i Radicali e con Di Pietro, che Veltroni ha ospitato nel gruppo unico (cosa non si fa per qualche voto in più). Marco, invece, avrebbe preferito che il Pd corresse da solo, senza pericolosi sussidi che potrebbero snaturare l’identità moderata del partito e rivelarsi strozzini ricattatori una volta saliti a Palazzo Chigi. Tant’è. Non si può negare l’evidenza: alle politiche del 13-14 aprile Follini sarà capolista in Campania per il centrosinistra. E se è centrosinistra non è centro. Punto. Nei sogni di Follini il centro di gravità permanente rimane solo una canzone.

Ah, vi sarete chiesti che fine abbiano fatto quei poveretti de L’Italia di Mezzo che, dati alla luce diciotto mesi fa, sono stati abbandonati per strada dal loro papà diciotto mesi dopo. Ecco, siccome la vita va avanti, questi orfanelli hanno deciso, il 22 gennaio scorso, di unirsi al Movimento per l’Autonomia. Il coraggioso progetto si chiama L’Italia di centro-Movimento per l’autonomia e il loro leader Raffale Lombardo, ex Udc, si presenterà già alle prossime amministrative di Sicilia sfidando Angela Finocchiaro del Pd. Come dire, la diaspora al centro non è mica finita. Appuntamento alla prossima puntata.

[1] Marco Follini, “Abbasso i ragionieri, si vince con le emozioni”, Corriere della Sera, 6 ottobre 2007.
[2] Intervista di S. J. Scarpolini, www.lab.iulm.it, 5 febbraio 2008.
[3] Ibidem.
[4] Ibidem.

giovedì 18 gennaio 2001

Il buon centrista guarda al domani

Casini corre da solo? Il dialogo può ripartire. Dopo il voto, ovviamente

Il 16 febbraio accade l’imprevisto. O meglio, ciò che da due anni Follini desiderava accadesse e che invece accade tardi, troppo tardi, per tornare indietro e ritrovarsi nel nido materno dell’Udc. Casini, infatti, rifiuta di entrare nel Popolo della libertà e decide di correre da solo, col suo simbolo, alle prossime politiche del 13-14 aprile. Nel Veltrusconi s’interpone ad incudine Casini candidato premier, la vera alternativa di centro. Follini non batte ciglio. Vede la mossa del suo ex presidente come “una scelta che nasce dalla necessità più che dalla virtù
[1]. Una stoccata non da poco. “La rottura, che doveva avvenire due anni fa, è stata molto voluta da Berlusconi e all’apparenza un po’ meno dall’Udc[2]. Ma non tutti seguono Casini. Giovanardi e Buttiglione, da berlusconiani convinti, mettono la freccia ed entrano nel Pdl. Tabacci e Baccini, da berlusconiani poco convinti, mettono la freccia ed escono dal box per fondare la Rosa Bianca. Insomma, non tutti gli udiccini hanno preso la strada verso Arcore. “Tutti noi che ci proclamiamo uomini di centro, vale per Tabacci, Casini ma vale anche per me - commenta Follini - abbiamo pagato lo scotto di polemiche, qualche volta piccine, sovrapposizioni tra di noi, che non ci hanno aiutato[3].

La diaspora al centro sembra essersi consumata, eppure “trovo che politicamente ci sia molto più centro nel Pd che da tutte la altre parti. Detto questo, apprezzo gli assolo di Tabacci, di Pezzotta, anche la rottura, seppur avvenuta in ritardo, di Casini, con cui è ora possibile far ripartire il dialogo. Ma la mia scommessa è un’altra: un Pd centrale proprio in virtù della sua vocazione maggioritaria. Detto questo, fioriscono tanti fiori e non tutti nel nostro recinto
[4]. Infatti, fuori dal recinto del Pd, Udc e Rosa bianca si accorpano nella lista dell’Unione di centro: questa nuova coalizione centrista potrà essere un’alleata del Pd? “Confido possa diventare un interlocutore. Ma gli uomini di centro, ovunque si trovino, qualunque sia la casacca, devono declinare la loro posizione al futuro[5].

Un progetto a lungo termine, quindi. Ma questo Follini non lo ha mai nascosto. Certo che a coloro che lo hanno eletto tra le file del centrodestra fa un po’ specie vederlo ora tra le colonne portanti del palazzo di Piazza Sant’Anastasia. Marco però vuole rassicurare chi continua ad avere fiducia nella sua “mission possibile”, puntando sul dialogo con tutti quei moderati che come lui vogliono tornare ai fasti democristiani. Dopo il voto, ovviamente. “Direi che il dialogo è nelle cose. Ed è perfino ovvio. Naturalmente dobbiamo evitare che sia un dialogo troppo schematico. Il dialogo non è figlio di un gioco di posizioni che lo rende fin troppo facile. Se ne siamo capaci, il dialogo è la conseguenza che dobbiamo fare sul paese
[6].

In questo dialogo l’Udc fa una proposta centrista. E il Pd come rilancia? “Quando Veltroni oggi esemplifica e schiera il presidente dei giovani imprenditori come capolista e candida Antonio Boccuzzi, l’operaio scampato dal rogo della Thyssen, ebbene, lì ritrovo un aggiornamento dell’interclassismo democristiano. Questo per dire che anche nel Pd c’è molto centro
[7]. Nel centrosinistra Follini sta percorrendo a bassa velocità la pista per far decollare il sogno democentrico. Ci vuole pazienza, tanta pazienza. Ma il suo intento magnetico sarà davvero in grado di calamitare i nuovi soci sulla linea mediana?

[1] Intervista di Carmelo Lopapa, La Repubblica, 17 febbraio 2008.
[2] Ibidem.
[3] Intervista di Lina Palmerini, Il Sole 24 ore, 30 gennaio 2008.
[4] Intervista di Federica Fantozzi, L’Unità, 15 febbraio 2008.
[5] Intervista di Carmelo Lopapa, La Repubblica, 17 febbraio 2008.
[6] Ibidem.
[7] Ibidem.

mercoledì 17 gennaio 2001

Non badate al mio curriculum

“Nel Pd può nascere una nuova Dc. E io rivendico il mio piccolo spazio”

Il matrimonio s’ha da fare l’11 giugno 2007: Follini fa il suo ingresso nell’Ulivo. E già parla da democratico. Pardon, da democentrico: “Il Pd è l’unico architrave politico per questo paese, l’unico partito centrale e centrista, un ponte sospeso sopra le nostre faziosità e divisioni[1]. E dalle colonne del Riformista non le manda a dire al Cavaliere, che starebbe operando una subdola politica di centro: “La virata di Berlusconi deve far riflettere anche noi, democratici e democentrici. Riassumiamo. Il Cav inneggia al sistema proporzionale (e non è il solo) e dichiara archiviato il bipolarismo (quasi da solo). Si direbbe che tenterebbe di rifare la Dc da destra. Inoltre demolisce una coalizione e punta tutto su un partito solitario. E qui lo spirito democratico d’un tratto si dissolve[2]. Dopo cinque anni passati col bavaglio alla bocca, Follini ora può mettere subito le cose in chiaro: se si è rifugiato nella tenda di Prodi è perché è convinto che il Pd, a differenza Cdl che soffre di una patologia destrorso-imprenditoriale, “può essere una Dc modernizzata, più laica e progressista. Berlusconi dice che la contesa sta al centro: glielo lasciamo? Oppure gli andiamo incontro per contrastarlo su questo terreno decisivo?[3]. Avanti miei Prodi.

E sulle radici del Pd ecco il Follini-pensiero: “La Dc era un partito tutto, con una sua fisionomia, una sua ideologia. Ma istintivamente portata a coprire tutte le zolle del campo, (quasi) nessuna esclusa. Il Pc, al contrario, era un partito-parte. Noi dobbiamo decidere se cercare di essere tutto o di essere parte. In altre parole, decidere se la nostra identità è profilata oppure più sfumata. E dunque se vogliamo essere l’anima di un polo che continua la disfida bipolare oppure il perno di un nuovo equilibrio, il tassello principale di un mosaico politico tutto da ridisegnare
[4]. Marco non si è affatto arreso, è ancora alla ricerca del “suo” centro. Quindi, non equivocate la sua azione. Perché, a quanto pare, il Pd è il giardino giusto per far crescere la sua pianticella. A centrodestra, invece, usavano gli insetticidi. E la sua creatura moriva all’istante.

Il 26 novembre 2007 Veltroni lo nomina responsabile nazionale per le Politiche dell'Informazione del Partito Democratico. Il sorriso di alcuni prodiani è malizioso. “Sono stato consigliere di amministrazione della Rai sul finire della Prima Repubblica, segretario di un altro partito e perfino (per tre mesi) vicepresidente in un governo Berlusconi. Lo riconosco, non è proprio il curriculum più consono per fare l’ambasciatore nel regno dei media. A mio credito vorrei però segnalare che non mi pare di aver mostrato una così tenace vocazione lottizzatoria ai tempi della Rai e negli anni successivi credo di aver dato un certo contributo ad evitare forzature sulla par condicio che molti, anche dalle mie parti, si apprestavano a fare o a lasciar fare. Insomma, dispongo di una certa libertà e mi illudo di non essere troppo conformista
[5].

Ma allora un emancipato di natura come Follini, che ci sta a fare in un partito così variopinto? “Credo che il Pd sia un mosaico fatto di tante tessere e io rivendico i colori, il formato e gli spigoli della mia piccolissima tessera”. Eppure Follini viene da molto lontano. “Può darsi, ma il senso di questo partito è di dare più peso alla destinazione che non alla provenienza: se la provenienza democristiana facesse problema, allora la stessa destinazione democratica sarebbe in forse
[6]. Se uno più uno fa due. Di certo la politica non è matematica. Ma geometrica forse sì. Perché i partiti sono come perimetri che descrivono un’area. Follini ha cambiato sia il perimetro che l’area. Intanto pure gli ex compagni Tabacci e Baccini, dissidenti da Casini, stanno tracciando il loro perimetro, la loro nuova area: la Rosa bianca. Tutti vogliono il giardinetto privato.

[1] Marco Follini, Diario di un democentrico, Il Riformista, 23 gennaio 2008.
[2] Marco Follini, Diario di un democentrico, Il Riformista, 22 novembre 2007.
[3] Ibidem.
[4] Ibidem.
[5] Marco Follini, Diario di un democentrico, Il Riformista, 29 novembre 2007.
[6] Ibidem.

martedì 16 gennaio 2001

Dal Pd: Marco, abbiamo bisogno di te!

Sì, ma come la prenderanno i miei nuovi amici “mezzani”?

Mi raccomando, senza trattino: “centrosinistra” va scritto tutto attaccato. Perché proprio questo dovrà essere il Partito Democratico: né la pallida riedizione del compromesso storico, né l’ennesimo cambiamento di nome interno alla storia della sinistra italiana. Ci tengono a non essere fraintesi i parlamentari dell’Ulivo. In particolare Antonio Polito e Nicola Rossi, che l’8 marzo 2007 scrivono congiunti una lettera al direttore del Corriere della Sera Paolo Mieli per chiedere a Follini e al suo nuovo movimento di partecipare alla costituzione di questo grande organo politico: “Follini ha detto in aula al Senato, motivando il suo voto di fiducia al governo guidato da Romano Prodi, che intende gettare un ponte tra centro e sinistra: non è meglio costruire un tetto comune, per un centro riformatore e una sinistra riformista? Oggi è possibile. E L’Italia di mezzo costituirebbe la garanzia che il tentativo è serio
[1]. Tradotto: caro Marco, il Pd ha bisogno di te.

Ok, il progetto non è di quelli campati per aria, Veltroni è una persona seria, l’invito è allettante. Ma che dico ai miei nuovi militanti? Qualche mese addietro, il 21 ottobre 2006 a Napoli, durante la cerimonia di battesimo de L’Italia di Mezzo, Follini aveva detto tutto, ma proprio tutto. Tranne che si potesse aprire uno spiraglio per confluire a sinistra: “La nostra formazione si colloca fuori dai due poli, fuori dal centrodestra e all'opposizione del centrosinistra. La nostra missione è dare voce ad una parte dell'Italia che non ha rappresentanza, un'Italia centrista, moderata, che sta nel mezzo, tra Prodi e Berlusconi, e che soffre lo schiacciamento nella tenaglia di questo bipolarismo”. Perché “chi si vuole dedicare a costruire un centro più forte deve scommettere sulla rottura di questo schema bipolare”. Era con questo spirito dal sapore un pizzico anarchico che Marco Follini si chiamava fuori dal partito di cui è stato segretario ma per cui non versa una lacrima che sia una.

E ai vecchi amici dell'Udc rivolgeva un consiglio: “Decidete cosa fare da grandi perché in questi mesi di legislatura avete abbaiato molto ma morsicato molto meno”. Con un’eccezione: Lorenzo Cesa, suo successore alla segreteria e uno dei principali artefici della nascita dell’Udc: “Lorenzo è senza ombra di dubbio una straordinaria figura umana e politica”. Poi, stop con gli encomi: Follini si toglieva due sassolini dalla scarpa quando ricordò come in quei mesi l'Udc si fosse tenuta ben dentro i confini della coalizione di centrodestra: “Lo ha fatto in occasione dell'elezione del Capo dello Stato, del referendum costituzionale, della candidatura alle regionali in Molise”. Sull'episodio molisano, in particolare, andava giù duro: “Dopo giorni di squilli di trombe e rulli di tamburi per annunciare la volontà di andar da soli, l'Udc è poi rientrata nei ranghi”, appoggiando con tutta la Cdl il presidente uscente Michele Iorio. Per Marco Follini “puntare a ricostruire il centrodestra è cosa diversa dallo scommettere sulla ristrutturazione del centrodestra: sono due politiche differenti”.

Contro ogni pronostico della vigilia, non lo segue Bruno Tabacci. Proprio lui, amico fraterno che tante ne ha viste insieme a Marco tra dispotisimi berlusconiani e ruffianerie casiniane e che inizialmente aveva lavorato all’elaborazione de L'Italia di mezzo, rimane dov’è (più tardi si unirà a Tabacci per far sbocciare la Rosa bianca). Aderiscono invece Riccardo Conti, Antonio Iervolino (ex senatore Udc) e Ortensio Zecchino (ex ministro del governo D'Alema), una decina di consiglieri regionali e una cinquantina di consiglieri provinciali. Insomma, era tutto pronto per passare al Gruppo Misto del Senato. Marco ci passa. Ma è una gita che dura poco, otto mesi circa. Perché la lettera di Polito e Rossi lui la raccoglie, la legge e non la straccia. Anzi, risponde signorsì e il 22 maggio 2007 entra nella carica dei Quarantacinque. I quarantacinque membri del Comitato 14 ottobre. Più semplicemente, il comitato costituente del Pd. Come cambia la vita.


[1] Nicola Rossi e Antonio Polito, lettera a Paolo Mieli, Corriere della Sera, 8 marzo 2007.

lunedì 15 gennaio 2001

Senatore senza bandiera

Marco non ama stare in poltrona. Ma se Veltroni chiama…

Già nel dicembre 2005 lo diceva sottovoce: “Serve un altro centrosinistra, libero dalla morsa dell’antagonismo
[1]. Ma nessuno raccolse l’appello. Alla vigilia del voto di fiducia del 25 febbraio Follini bussa alla porta di tutti i leader del centrosinistra e poi si rinchiude al terzo piano di via Bissolati per far metabolizzare l’inversione di trend ai dirigenti della neonata Italia di Mezzo: “Penso che occorra salvaguardare la governabilità, che non è solo una parola politically correct, ma una risorsa per un Paese che vedo in grande difficoltà e che non è aiutato dalla disputa muscolare a cui abbiamo assistito in questi anni. Approfondire il solco della crisi di governo significa lasciare al buio il Paese in un momento difficile. E io non mi presto[2]. Certo, Follini non si presta. Infatti, secondo la Cdl tutta, il voto alla maggioranza non l’ha mica prestato: l’ha proprio regalato. E giù critiche. “Ho messo in conto da molto tempo una discreta quantità di rimproveri. Quando ci penso qualche volta mi dispiace, ma non mi atterrisce[3].

Per rendere più cristallina la sua scelta, Marco decide che rifiuterà qualunque proposta di incarico nell’esecutivo prodiano: “Continuerò a fare il senatore. Non ho chiesto nulla in cambio
[4]. Un Follini a interessi zero. Un Follini per il bene comune. Ma l’Unione ha già fatto i suoi calcoli da brivido: con uno scarto così stitico a Palazzo Madama, dove basta uno starnuto per mettere gambe all’aria l’intera maggioranza, il voticello del leader de L’Italia di Mezzo costituirà d’ora in poi la speranza a cui ancorarsi nei momenti di maremoto. “La mia proposta è questa: torniamo al centrosinistra degli anni Sessanta, quello che teneva fuori gli antagonisti e la destra di allora[5]. Ma se pensate che abbia troncato l’operazione “ri-cerco un centro”, vuol dire che non lo conoscete bene: “Il ragionamento che faccio è ancorare il centrosinistra a una posizione più centrista, il tema che pongo è come spostare verso il centro l’asse del governo. La mia disponibilità di oggi a sostenere il governo è figlia di questo tentativo[6].

E adesso? Votare la fiducia e poi decidere di volta in volta, oppure entrare nella maggioranza? Marco vuole preservare la sua autarchia. Anche perché non può compromettersi a oltranza: “Non ho un’idea sacrale di maggioranza e opposizione, non credo esistano due recinti: più si allentano le morse, meglio è. Il senso di una legislatura costruttiva di movimento sta nel restare imprigionati in uno dei due blocchi. Non scelgo un blocco contro l’altro: voterò sul filo del ragionamento
[7]. Il Marco Follini della primavera 2007 è un senatore indipendente che ribadisce la sua estraneità a qualsiasi logica di “buoni o cattivi”, che è convinto che “votare con Diliberto non è più imbarazzante che votare con Calderoni[8], che risponderebbe “grazie, preferisco di no” all’eventuale assegnazione di un ministero perché non ha il sedere affezionato alla poltrona. Il Marco Follini di qualche mese dopo, invece, è ancora un senatore, ma meno, molto meno indipendente. Infatti…

Infatti qualcuno è rimasto fuori dall’arena del governo apposta per fertilizzare il terreno da cui sboccerà il Partito Democratico, miscela tra Democratici di Sinistra e La Margherita. Ma non chiamatelo “grande contenitore” o “grande gazebo”, sennò Piero Fassino, il demiurgo del nuovo soggetto politico, va su tutte le furie: diessini e diellini abbandoneranno sì i propri simboli, ma il risultato non sarà la semplice somma di due partitoni. L’obiettivo è creare un’ampia area riformista che estrometta i radicalismi della sinistra comunista. Come dire, prego cari signori Diliberto, Giordano, Pecoraro Scanio: la porta è da quella parte. Intanto Follini osserva con interesse gli sviluppi. E sembra che Walter Veltroni, candidato numero uno alla segreteria del Pd, abbia proprio bisogno di un uomo come lui, un uomo di centro. Quasi quasi, pensa Follini...


[1] Intervista di Francesco Bei, La Repubblica, 24 febbraio 2007.
[2] Ibidem.
[3] Ibidem.
[4] Ibidem.
[5] Ibidem.
[6] Ibidem.
[7] Intervista di Aldo Cazzullo, Corriere della Sera, 24 febbraio 2007.
[8] Ibidem.
Leggi il CAPITOLO VII

domenica 14 gennaio 2001

Tra le due Italie c'era la mia

“Mi rivolgo a chi non vuole stare né qua né là”. Poi Follini se ne va di là

L’impressione è che Follini sia salito alla ribalta della politica italiana nel momento meno indicato per materializzare la sua idea nostalgico-centrica: al momento dello sfascio demoscristiano non gli resta che seguire le orme dell’allora amico Casini. Nasce il Ccd. Ma nasce anche il Polo della Libertà, che in seguito si chiamerà Casa delle Libertà. Polo, Casa, chiamatela come volete. Per Follini significa una cosa sola, anzi due: Berlusconi e bipolarismo. Quel dannato bipolarismo che ancora oggi immobilizza il Paese: “Non funzionano i due poli. Funziona la meccanica dell’alternanza, questo sì, la previsione statistica che a ogni elezione l’opposizione vince perché è sempre più forte l’inverno del nostro scontento
[1]. Dal ‘94 i vari governi sono passati da destra a sinistra, da sinistra a destra: ribaltamenti di gioco, stessi giocatori. E stessi, clamorosi, autogol. Soprattutto nel secondo esecutivo Berlusconi, tanto per cambiare: “Il centrodestra liberale e liberista in cinque anni ha liberalizzato poco o niente. Il centrosinistra riformista e progressista non ha l’aria di poter fare grandi riforme e grandi progressi[2].

Berlusconi e Prodi rimangono ostaggi delle loro alleanze: “Non si possono costruire coalizioni nelle quali sei obbligato a fare entrare tutti e pagare a peso d’oro i più laterali e i più strampalati
[3]. E, siccome “un altro centrodestra è bello e impossibile[4], ecco che Follini fa baracca e burattini e s’inventa il suo centro, la sua Italia libera e indipendente, la sua Italia di mezzo: “Il mio centro è rivolto a chi non vuole indossare né l'una né l'altra pantofola, a chi non vuole né esser rinchiuso nel muro della Cdl né marciare sotto le bandiere dell'Unione. L'Italia di mezzo è un'Italia di centro, che sa che questo scontro, sotto le vesti di un referendum contro Berlusconi, appartiene al passato[5].

Toh, si continua a ripetere “basta con i partitini” e ora ne spunta fuori un altro. Un altro partito di centro. L’ennesimo. Ci scusi, onorevole Follini, ma che novità è questa? “Venti partiti sono una stranezza che frammenta la rappresentanza politica. Ci sono venti partiti perché ci sono i due poli. Togliamo di mezzo queste costrizioni e i partiti saranno quelli che la natura politica porta a formare: ci sarà una destra, un centro, una sinistra, magari due sinistre (riformisti e antagonisti), perché da quella parte sono particolarmente fecondi. Poi non esistono altri spazi. Se questa varietà di opinioni viene compressa in un sistema in cui dovrei andare per forza d'accordo con Calderoli e litigare con Rutelli senza capire perché devo andare d'accordo con uno e in disaccordo con l'altro, lì si introduce una divisione insanabile
[6]. La medicina? “Investire sul centro. E non illudersi di disporre della rendita di un grande centro che non c’è[7]. Il modello sognato è chiaro: “In Italia non c’è Sharon, altrimenti ci sarebbe Kadima. Ma il tentativo deve essere quello[8].

Nella Cdl cominciano a capire che Follini non lo tiene più nessuno: il 10 aprile 2006 vota, insieme al fido Tabacci, per Napolitano presidente della Repubblica. Primo buffetto a Berlusconi. Secondo buffetto: il 26 maggio dice no al referendum costituzionale sul federalismo (vendetta servita su piatto freddo nei confronti della Lega). E adesso ti aspetti il ceffone. Che arriva non tanto quando il 16 giugno il senatore ribelle fonda L’Italia di Mezzo aderendo al Gruppo Misto (uno così meglio lasciarlo andare per i fatti suoi, pensano nel centrodestra), bensì quando il 13 febbraio 2007 D’Alema fa il punto sulle missioni militari estere. Per la Cdl è una ghiotta occasione per sfrattare Prodi che pochi giorni prima, sull’ampliamento della base Usa a Vicenza, è scivolato su una buccia di banana a Palazzo Madama. Da Follini Berlusconi non si sarebbe aspettato di certo un dietrofront. Ma che votasse sì (ecco il manrovescio) riportando a galla il governo, eh no, questo proprio non lo avrebbe immaginato nemmeno in un film di fantascienza. ‘Sto traditore! Però in effetti vagare nella terra di mezzo solo soletto è deprimente. Guardiamo un po’ dall’altra parte se c’è qualcuno che mi fa compagnia: Follini indossa così la pantofola sinistra. E buonanotte agli obiettivi di centro.


[1] Ibidem, p. 51.
[2] Ibidem, p. 51.
[3] Ibidem, p. 52.
[4] Ibidem, pp. 52-53.
[5] Intervista di S. J. Scarpolini, www.lab.iulm.it, 5 febbraio 2007.
[6] Ibidem.
[7] Marco Follini, Uno contro tutti, Marsilio, 2007, p. 62.
[8] Ibidem.

leggi il CAPITOLO VI

sabato 13 gennaio 2001

Davide Follini vs Golia Berlusconi

Il Cavaliere scende dalla sella. E Marco attraversa il Rubicone

E’ il 22 settembre 2005 quando Berlusconi annuncia il ritorno di Tremonti all’Economia dopo le dimissioni di Siniscalco. D’un tratto Follini chiede il microfono: “C’è chi pensa che il miglior leader del centrodestra sia Berlusconi e chi come me pensa di no. Bisogna che queste due opinioni si esprimano democraticamente
[1]. Che nella Cdl ci sia o no democrazia è il forte dubbio di Marco. Perché il Cavaliere, Golia, dovrebbe mai temere Follini, un Davide rompiscatole ma niente di più? Il premier gli risponde: “E’ stato posto oggi per la prima volta il tema della leadership, troveremo il modo democratico per affrontarlo[2]. Quel modo non viene trovato. Anche perché a Casini preme il varo della legge elettorale come moneta di scambio. E scambio fu: il Cavaliere, sventata l’inutile incombenza delle primarie, fa un altro giro di giostra e Calderoli, ministro per le Riforme, appronta il porcellum. Follini non è d’accordo né su leadership né sulla legge elettorale. E messo da solo in un angolino, si dimette.

Tutto per colpa, sempre e comunque, di ‘sta benedetta legge elettorale. Ma cosa ci trova di tanto affascinante Casini nel sistema proporzionale? Quale vantaggio può trarre un partito territoriale come l’Udc? “Con la vecchia legge elettorale – spiega Follini - rischiavi che i tuoi deputati venissero impallinati. Esempio: tu candidavi un democristiano in Padania, e un po’ di mondo berlusconiano e un po’ di popolo leghista avrebbero potuto farlo saltare. Con la nuova legge elettorale tu ti porti i tuoi. Punto. Ma noi abbiamo dato in cambio a Berlusconi la possibilità di fare un’altra corsa, e siamo stati proprio noi, il partito che alla forzatura delle riforme istituzionali aggiungeva la forzatura sulla legge elettorale
[3]. E non si sarebbe dovuto parlare solo di legge elettorale, “ma anche di sistema tedesco, di cancellariato, di sfida costruttiva, di Bundersrat[4]. Vabbè, chiedeva la luna. Così Follini, il panzer mancato, lascia. Sognando un nuovo centro. Il centro che Berlusconi dice di avere già tra le mani: il centro è Forza Italia, erede naturale della Dc.

Marco non la pensa così. Tra Berlusconi e la Dc ce ne passa: “Berlusconi è capo di un partito monocratico ed esprime un’idea monarchica. La Dc invece aveva una vocazione repubblicana e si dilettava a decapitare i propri leader, perché li considerava intercambiabili. Impedì a Fanfani e a De Mita di fare il presidente del Consiglio e il segretario del partito nello stesso tempo. Non ebbe pietà per nessuno, nemmeno per il fondatore De Gasperi. La Dc privilegiava la leadership a più mani ed era insofferente verso qualsiasi primato personale. Mentre Berlusconi fonda sul primato personale e sui propri interessi la sua politica
[5]. Però anche la Dc di cultori dei propri interessi ne aveva a iosa. “Allora c’era un argine che ora non c’è più. Ma non è tutta colpa di Berlusconi. E’ colpa della trasformazione della nostra etica pubblica: Berlusconi è la punta di questo iceberg[6].

Quando l’11 aprile 2006 Prodi sale al governo per un pugno di voti, a Marco viene da dire a tutti: visto? Ma la frittata è fatta. Ora c’è da capire quale sarà il suo futuro politico. In solitudine o in compagnia? Se Giovanardi e Buttiglione si sentono più forzisti che udiccini, c’è chi come Tabacci si sente meno udiccino e più folliniano. Il buon Bruno, compagno di avventure e sventure, ci rimane malissimo quando l’amico Marco abbandona da segretario di partito. Lo rimprovera di aver commesso un gesto avventato. Avrebbe dovuto resistere, resistere e resistere. Ma l’esclusione dalla Commissione parlamentare di vigilanza Rai per Folllini è una ferita ancora aperta. Una sera a Palazzo Chigi Berlusconi lo incrocia e lo accusa di aver innescato la sconfitta per non aver accettato la modifica della par condicio: “Se continui così ti scateno contro le mie tv”. Solo Gianni Letta e Gianni De Michelis spendono qualche parola gentile per lui. Gli altri si rintanano in un silenzio imbarazzante. Compagni Udc compresi. Che sull’altra sponda del Rubicone l’aria sia più respirabile?


[1] Ibidem, p. 34.
[2] Ibidem, p. 34.
[3] Ibidem, pp. 37-38.
[4] Intervista di Mario Lavia, Europa, 8 novembre 2007.
[5] Marco Follini, Uno contro tutti, Marsilio, 2007, pp. 14-15.
[6] Ibidem, pp. 15-16.

leggi il CAPITOLO V

venerdì 12 gennaio 2001

Bibliografia

Marco Follini, Il tarlo della politica, Rusconi, 1988.

Marco Follini, La Dc al bivio, Laterza, 1992.

Marco Follini, C'era una volta la Dc, Il Mulino, 1994.

Marco Follini, La Dc, Il Mulino, 2000.

Marco Follini, Intervista sui moderati, Laterza, 2003.

Marco Follini, Uno contro tutti, Marsilio, 2007.

Marco Follini, La volpe e il leone, Sellerio, 2008.

Intervista di Stefano Joni Scarpolini,
www.lab.iulm.it, 5 febbraio 2007.

Intervista di Aldo Cazzullo, Corriere della Sera, 24 febbraio 2007.

Intervista di Francesco Bei, La Repubblica, 24 febbraio 2007.

Intervista di Mario Lavia, Europa, 8 novembre 2007.

Marco Follini, Diario di un democentrico, Il Riformista, 29 novembre 2007.

Marco Follini, Diario di un democentrico, Il Riformista, 23 gennaio 2008.

Intervista di Lina Palmerini, Il Sole 24 ore, 30 gennaio 2008.


Intervista di Federica Fantozzi, L’Unità, 15 febbraio 2008.

giovedì 11 gennaio 2001

Scheda biografica


Marco Follini
Nato a Roma il 26 settembre 1954
Sposato, una figlia
Giornalista
Deputato al Parlamento (due legislature)
Senatore della Repubblica (prima legislatura)
Componente commissione Finanze e Tesoro del Senato della Repubblica
Componente commissione Parlamentare per le questioni regionaliComponente del Comitato 14 ottobre per il Partito DemocraticoPresidente della Fondazione Formiche Onlus

Dal 1977 al 1980 segretario nazionale del movimento giovanile della Dc
Dal 1980 al 1986 componente della direzione nazionale Dc
Dal 1986 al 1993 consigliere d'amministrazione Rai
Dal 1995 al 2001 componente della direzione nazionale Ccd
Dal 2001 al 7 dicembre 2002 presidente del Ccd
Dal 2 dicembre 2004 al 15 aprile 2005 Vice Presidente del Consiglio
Dall'8 dicembre 2002 al 15 ottobre 2005 segretario dell'Udc
Il 16 giugno 2006 fondato il movimento politico L'Italia di mezzo
Il 19 ottobre 2006 aderisce al Gruppo Misto
L'11 giugno 2007 aderisce al Gruppo L'Ulivo

È stato inoltre direttore del settimanale La Discussione
e direttore delle relazioni esterne per le società Recordati, Stet, Finsiel.

mercoledì 10 gennaio 2001

Finchè c'è la Lega

Quel gioco di contropartite dove Marco sta in panca

In questi anni mi è capitato quasi involontariamente di trovarmi nel punto più acceso della disputa della politica italiana. Lì ho combattuto e lì ho litigato. Ma non pensavo che fosse quello il mio destino politico. Amo la controversia solo perché è il riflesso delle idee. Di mio, sarei molto più tranquillo e accomodante
[1]. Quel “lì”, il luogo della discordia, è lo spiazzo da condividere con e contro Berlusconi. Con o contro: che tormentone. Qualcuno, però, avrà pur scelto Silvio come leader. Andare al voto con lui leader per poi inaugurare la stagione della corrosione contro di lui leader sembra parecchio contraddittorio. Ma c’è da dire che nel 2001 Follini non è ancora nessuno e non ha ancora nessun titolo per dire la sua. E’ semplicemente uno dei tanti deputati del centrodestra che non può arginare il fiume straripante di consensi di cui gode il Cavaliere. Follini però è allergico al suo politicare “che parte da sé, da Arcore e dalle cene con Bossi[2]. Marco non è uno da salotti.

Intanto al centrodestra lui le pulci le fa eccome. Le fa a molte leggi e leggine, soprattutto in tema di giustizia. La firma sull’impedimento della modifica della par condicio è sua. Di contro, subìsce la riforma Gasparri. Per il resto, difficile farsi valere in una classe dove il maestro ha i suoi cocchi: il debole che Berlusconi ha per Bossi è palese, tant’è che Follini trova in Fini una lieve complicità, torchiati dalla preoccupazione comune del Carroccio. Ma con il leader di An il patto non è di ferro, è più una sorta di convergenza parallela: “Avevamo in comune più gli avversari che le opinioni. Fini ha certamente sofferto l’anomalia del centrodestra, ha tentato di reagire, ma con qualche cautela di troppo
[3]. Follini se la deve cavare da solo: all’inizio della legislatura è tra i pochi a sostenere la riforma delle pensioni. Ma trova il muro di Fi e soprattutto della Lega, che teme di vedersi sfilare dalle tasche la devolution. Alla fine la rivoluzione istituzionale prende il largo quando Bossi ritira la sua contrarietà sulla previdenza. In questo gioco di ricompense Follini rimane al palo.

Con il Senatùr il rapporto è sempre stato rispettoso, ma tra due persone che sono agli antipodi e quindi faticano a capirsi, “anche se devo ammettere che Bossi ha una sua linearità e una sua limpidezza. Il suo percorso è sempre stato chiaro, non ha nulla del politicante. Io la maggior parte delle volte non sono d’accordo con lui, ma lungo il suo percorso non ci sono trappole, ha una sua consequenzialità
[4]. La sensazione è che tra Follini e Bossi non ci sia stima eccessiva, ma almeno un’accettazione reciproca. Per Marco il problema non è tanto Umberto, quanto il circolo di bossisti, “quel Circo Barnum che, peraltro, lui ha fatto di tutto per animarlo, quindi non posso giustificarlo più di tanto[5].

Ma non solo la riforma costituzionale, non solo la legge elettorale. Nell’agenda di Follini c’è la questione della leadership. Il tema della discontinuità. Perché continuare con il Cavaliere sarebbe deleterio. Ottenuta la crisi di governo, Follini convoca il secondo congresso del partito: “Cambiare cavallo era il modo più forte e più nitido per cambiare percorso
[6]. Silvio è indignato, si sente pugnalato alle spalle. Peccato che il discorso folliniano, per quanto aggressivo, non trovi il consenso di Casini, che anziché parlare di allontanamento da Berlusconi suggerisce, al contrario, di porsi più verso il premier e meno verso il segretario udiccino. Ma guarda un po’: proprio Pier, che per tutta l’estate ripeteva in tutte le salse “bisogna cambiare”, ora che fa? Aggiusta la posizione del partito e crea il vuoto attorno a Follini. Poi succede che la legge elettorale viene rivisitata in senso casiniano e Berlusconi rimane dov’è. Marco è sempre più solo.

[1] Marco Follini, Uno contro tutti (intervista con Carlo Puca), Marsilio, 2008, p. 11.
[2] Ibidem, p. 18.
[3] Ibidem, p. 22.
[4] Ibidem, p. 32.
[5] Ibidem, p. 33.
[6] Ibidem, p. 33.

leggi il CAPITOLO IV

martedì 9 gennaio 2001

Nella casa senza libertà

Quando Marco si sentiva un coinquilino in affitto

Se l’Udc avesse davvero avuto la volontà di autonomizzarsi fino in fondo non me ne sarei andato via
[1]. Invece i suoi compagni di partito “si sono accomodati nella casa berlusconiana. Ogni tanto il condominio rivendica che si annaffino le piante, che si dia una mano di vernice, che si migliori l’ascensore… Ma senza mettere in discussione il portiere, tanto meno il proprietario della casa[2]. Il rapporto con il padrone di casa Silvio Berlusconi è sempre stato controverso fin dalla sua investitura a vice-presidente del Consiglio, il 2 dicembre 2004. Allora Follini era segretario dell’Udc da due anni esatti (dopo essere stato presidente del Ccd dal 2001 al 2002). Ciò che colpiva di lui nella Cdl era l’impeccabile capacità dialettica ed intellettuale di mediare fra l’impeto della Lega e la prudenza di An e della stessa Udc. La stessa capacità grazie a cui raccolse il 6% del consenso nazionale. Piaceva lo spot televisivo in cui Marco passeggia beato per le vie di Roma pronunciando il claim “Io c’entro”: il partito di Casini (allora Presidente della Camera) fa audience anche grazie al suo faccione.

Marco è telegenico. Marco è il volto placido della riscossa rampante dell’ex-Ccd. Marco è il braccio, ma non destro, di Pier Ferdinando. Perché se il presidente udiccino nasconde sotto le sue vesti istituzionali un’accondiscendenza incondizionata verso Berlusconi, il segretario Follini proprio non riesce a mandar giù l’idea di una sudditanza psicologica nei confronti di Forza Italia. Pier alla stregua di Silvio. E Marco? Non scherziamo. Lui è la voce fuori dal coro. Una voce ancora timida. Un sussurro. Quel che basta per rompere il silenzio. Perchè voglio vedere te ogni giorno fare il sorrisino di circostanza con Giovanardi e Buttiglione. Gente che con Silvio è pappa e ciccia. Mentre Marco, figuriamoci, fatica persino a passargli una penna.

Però c’è da proporgli la riforma della legge elettorale in senso proporzionale come contropartita tecnica. D’altro canto se la Lega mette sul piatto la devolution, l’Udc non può non chieder nulla in cambio della fedeltà offerta a Fi. Primavera 2006, tempo di elezioni politiche. Secondo i calcoli del centrodestra il proporzionale garantirebbe una vittoria di ampio scarto sull’Unione, evitando le insidie del maggioritario. Insomma, Berlusconi, se vuole vincere, deve accontentare la Lega e soprattutto noi, intonano a gran voce gli udiccini. Ma non tutti. A Follini il proporzionale, così come architettato da Casini, proprio non lo convince. Anzi, una pasticcio del genere sarebbe il suicidio del sistema politico italiano. Infatti. Ma non ci voleva un mago, come Harry Potter, per capirlo.

Sì, perché Marco, occhietti vispi e occhiali rotondi, somiglia al maghetto della favola di
Joanne Kathleen Rowling. Consideriamo poi che con la sua bacchetta è riuscito, uno, ad abbattere i muri della Casa della libertà, e due, a far riapparire il governo Prodi, allora capisci perché l’accostamento fatto da Cossiga non è solo estetico. Il proporzionale? Brutta bestia, se non lo si prende per le corna: “Serviva un'altra legge, in un altro modo. Bisognava coinvolgere di più l’opposizione. Ritenevo che la possibilità per gli elettori di scegliere i candidati e di non subire troppo perentorie indicazioni dei partiti facesse parte di quel diritto in più e di quel potere in più che noi per primi avevamo evocato. In una parola, immaginavo una legge in cui furbizia e virtù si tenessero in equilibrio, e non una situazione in cui l'una schiacciasse l'altra[3]. Il disastro rimediato dal centrodestra alle Regionali del 2005 inducono Follini a sgusciare dal terzo esecutivo-Berlusconi prima e dalla segreteria dell’Udc poi. Quando? Il 15 ottobre, all’indomani del via libera alla legge proporzionale. Proprio come la voleva Casini. E non come la voleva Follini, il panzer timido, che preferiva il modello tedesco. Dimissioni, quindi. “Inevitabili” afferma. Senza rimpianti.

[1] Intervista di Mario Lavia, Europa, 8 novembre 2007.
[2] Ibidem.
[3] Marco Follini, discorso delle dimissioni, documento del 15 ottobre 2005.

leggi il CAPITOLO III

lunedì 8 gennaio 2001

Cerco un centro. Anzi no

Sintesi della Follinissea tra sogni e contraddizioni

E’ il dicembre 1981 quando alla radio suona per la prima volta Centro di gravità permanente (dall’album La voce del padrone) di Franco Battiato. Da più di un anno Marco Follini è alla direzione nazionale della Dc. Governo Forlani. Poi Spadolini e Fanfani. Follini sta sotto lo scudo crociato fino al 1986, quando entra nel cda della Rai e ci rimane per sei anni. Intanto si arriva allo spartiacque del 1992: il ciclone di tangentopoli spezza l’incantesimo democristiano e spazza ogni dubbio su Mario Chiesa e seguito. La balena è abbattuta. Il centro di gravità non è più permanente. Parte la ricerca di un nuovo centro. In grado di superare la diffidenza di un elettorato che si sente tradito. In grado di sfidare una forza di gravità che negli ambienti ex-Libertas si sta facendo sempre più schiacciante.

Ventisei anni dopo. E’ il 13 febbraio 2007 quando al Senato Prodi va sotto sulla relazione delle missioni militari estere del ministro D’Alema. Ma a salvare il governo dalla crisi ci pensa Marco Follini, che vota per l’Unione. Il giorno seguente Libero titola in prima pagina “Colpa di questo qui” con la foto del “traditore”. Lui, ex vice-premier nel secondo mandato Berlusconi, ora è accusato di fare aumma aumma col “nemico”. Da destra a sinistra, passando per il centro. E’ l’odissea folliniana. Da quel 1981 sono cambiate molte cose. Anche Follini è stato costretto a rimescolare le sue carte. Il centro di gravità permanente non esiste più da ormai un ventennio. Lui però non si è mai arreso. Un bel giorno decide di saltare il fossato che divarica le due Italie per andare di persona dai riformisti del centrosinistra, prenderli per mano e accompagnarli verso il centro, verso un nuovo governissimo alla democristiana. Perché se la montagna non va a Maometto, Maometto va alla montagna…

E pensare che il 3 febbraio 2007, in occasione della presentazione del suo nuovo partito L’Italia di Mezzo all’assemblea dei circoli della Lombardia, Marco Follini ci tenne a sottolineare come il suo intento non dovesse essere confuso con quello dei suoi colleghi moderati: “Noi questo tentativo lo facciamo contando solo sulle nostre forze. Tutti gli altri la pensano come noi, ma stando rintanati al calduccio delle loro alleanze e delle loro convenienze. Il centro può rinascere solo grazie alla sua autonomia, partendo da sé. Rifiutando di andare a rimorchio dell'alleato più forte, del principe più generoso
[1]. Già, il più forte, il più generoso. O prendere tra Prodi e Berlusconi, o lasciare. Ma lasciare e camminare in solitudine è roba da intrepidi. Da gente con le palle.

La tiratona d’orecchi è al suo ex-presidente udiccino Pier Ferdinando Casini, reo di essersi fatto imbambolare dall’ipnosi-Berlusconi nonostante i numerosi singhiozzi di ribellione. Singhiozzi di insofferenza, colpetti bassi. Ma mai quel colpo netto che spezzasse una volta per tutte il cordone ombelicale che lo tiene legato al Cavaliere. Casini non ha avuto mai il coraggio di dire “ciao a tutti”. Follini sì. Dice “a mai più” e il 16 giugno 2006 dà vita alla sua nuova creatura, L’Italia di mezzo. Un nuovo centro. Per adesso, ancora un centrino. Ma certamente diverso, dice lui, da quelli tratteggiati dai vari Mastella, Rotondi, Pizza, dai vari volenterosi. Centri velleitari, fumosi. Che non osano divorziare dagli alleati. Follini, invece, sceglie la vita da single. Aspettando di conoscere nuovi amici. Ma se non arrivano bisogna pur andarseli a cercare da qualche parte. Buttando l’occhio a sinistra, i nuovi amici li trova nel Partito Democratico di Veltroni. Da dove, ora come ora, Marco non intende spostarsi di un millimetro: che abbia improvvisamente cambiato obiettivo? Arrivederci, caro centro di gravità permanente, che non fa cambiare idea sulle cose e sulla gente. Arrivederci o addio?


[1] Intervista di S. J. Scarpolini, www.lab.iulm.it, 5 febbraio 2007.

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