
La dance commerciale anni Novanta era contagiosa: piaceva ai piccini, ai giovani, a coloro che volevano fare i giovani ma non lo erano più ormai da tempo. Piaceva a tutti, anche a chi odiava "quella musica stupida e tutta uguale".
In discoteca, quando il dj la suonava, era puro delirio. E il sabato sera tutti giù in pista, a trascinare l'altro via dalla poltroncina del privè. Poi durante la settimana, schiacciavi on sulla radio per ascoltare i brani più ballati del weekend.
La musica dance commerciale era tutto questo. E non aveva la pretesa di affascinare per le sue parole, così banali e così maccheronicheggianti nel loro pessimo inglese. La dance voleva solo far muovere, sudare, scatenare. Con il suo ritmo incalzante, con le sue melodie elementari ma al tempo stesso così efficaci che ti rimanevano nell'orecchio tutto il giorno ed eri quasi costretto a canticchiarle per rimanere con il pensiero là, alla travolgente serata in discoteca "dove il dj mixava da dio".

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